L’effetto Spettatore (Bystander Effect): cos’è e come funziona?

a cura della Dott.ssa Filomena De Falco

COS’è L’EFFETTO SPETTATORE?

Il fenomeno dell’effetto spettatore o effetto testimone (Bystander Effect) è stato studiato in psicologia sociale. Le ricerche su tale fenomeno hanno dimostrato che la possibilità di aiutare l’altro in difficoltà è inversamente correlata al numero di spettatori che assistono all’emergenza, ovvero maggiore è il numero di spettatori, minore è la probabilità che qualcuno soccorra qualcuno in difficoltà.

GLI STUDI SULL’EFFETTO SPETTATORE

Nel 1968, Jhon Darley e Bibb Latané, effettuarono una serie di esperimenti in laboratorio per dimostrare l’esistenza dell’effetto spettatore, in seguito ad un evento di cronaca nera accaduto nel 1964. Kitty Genovese, una donna di New York, fu uccisa a coltellate nei pressi della sua abitazione, nel quartiere di Kew Gardens, distretto del Queens a New York. La donna chiese aiuto urlando e, nonostante molti vicini avessero udito la sua richiesta di aiuto, nessuno intervenne per aiutare la donna. Milgram e Hollander (1964) affermano che la persona che assiste ad una situazione di emergenza, come un’aggressione, vive un conflitto interiore: da una parte vi sono le norme morali che impongono di aiutare il prossimo, dall’altra parte subentrano paure più o meno razionali relative a cosa potrebbe succedere qualora si intervenisse.  L’opinione di Darley e Latané è che in alcuni casi le norme morali siano indebolite da altri fattori, ad esempio la presenza di altri osservatori. Questo porta a due conseguenze: la diffusione della responsabilità (così come della potenziale vergogna per non essere intervenuti) e il lecito dubbio che qualcun altro si sia già mosso per cercare aiuto, pur non avendone la certezza. Con questi presupposti, emerge una chiara ipotesi: più sono le persone che assistono ad un’emergenza, più si riscontra la probabilità che ogni spettatore non intervenga o lo faccia più lentamente.

L’ESPERIMENTO

I ricercatori reclutano 72 studenti di psicologia, dicendo loro che sarebbero stati coinvolti in una discussione sulla vita universitaria. Ciascuno veniva portato in una stanza nella quale poteva comunicare con gli altri attraverso un citofono, in turni di due minuti a testa, al fine di salvaguardare l’anonimato. Durante la discussione, un ragazzo prende la parola, ma d’improvviso è colto da un malore. I sintomi sembrano quelli di una crisi epilettica e in effetti il ragazzo ha precedentemente detto di soffrirne. I partecipanti sentono al citofono la sua richiesta d’aiuto e dopo le parole del ragazzo, si sentono dei rantoli e poi più nulla. Per due minuti gli altri partecipanti non possono comunicare tra di loro. I risultati mostrano che l’85% dei partecipanti che sanno di essere l’unico interlocutore della vittima cercano aiuto in modo tempestivo (prima che la vittima smetta di parlare), mentre nel caso in cui la discussione avviene in gruppo solo il 31% dei soggetti interviene per chiedere aiuto. La vittima ha quindi maggior probabilità di essere aiutata quando a essere presenti sono una o due persone, mentre questa probabilità cala quando ad assistere sono, ad esempio, in cinque. A 45 secondi dall’inizio della simulata crisi epilettica, la probabilità che intervenga l’unico interlocutore presente è del 50%, mentre se gli interlocutori sono cinque la probabilità si azzera. Questi risultati sembrano essere confermati al netto di altre variabili, come il sesso o alcuni tratti di personalità, ad esempio la desiderabilità sociale. Alla fine dell’esperimento, viene chiesto ai soggetti di definire quali pensieri hanno avuto nel momento in cui hanno sentito la vittima stare male. Emerge che i soggetti non riescono a definire con esattezza a cosa hanno pensato e affermano per lo più: “non sapevo cosa fare”, “ho pensato che potesse trattarsi di uno scherzo”, “non capivo cosa stesse succedendo”.

COMMENTI

Nel commentare i risultati raccolti, gli autori affermano che probabilmente i soggetti non hanno deciso di non prestare soccorso. Piuttosto emerge una sorta di conflitto interno, come se si chiedessero: “devo fare qualcosa oppure no?” (dato che sembra confermare la teoria di Milgram e Hollander). In seguito Latané e Darley (1969) continuarono i loro esperimenti sul bystander effect, affermando che potrebbero esserci due meccanismi alla base del fenomeno analizzato. In primo luogo, la mancanza di preoccupazione mostrata dagli altri membri del gruppo potrebbe comportare una valutazione sommaria e sottostimata della gravità dell’evento. Inoltre, la diffusione della responsabilità, come già mostrato, determinerebbe scarsa probabilità di intervento.

Qual è il fattore che muove l’uomo dalla posizione di spettatore a quella di attore e protagonista del suo tempo? Questa domanda resta ancora oggi attuale.

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